Molti sostengono invece che quello di Tsipras sia un atto di disperazione.
Niente affatto. La sua è una resa dei conti con le politiche neoliberiste che in Grecia si sono rivelate per quello che sono sempre state: un attacco sistematico alla democrazia, un totale disprezzo delle classi lavoratrici, il perseguimento criminale di politiche di arricchimento dei più ricchi. Oggi bisogna andare allo scontro, non c’è altra soluzione. Questa battaglia va fatta a piedi scalzi, con le armi della verità, contro la strategia della menzogna della Troika e dei mass-media che mistificano i dati economici e sociali e servono gli interessi dei poteri forti.
Se al referendum vince il «No» cosa succede?
Intanto sarei molto contento. La posizione di Tsipras si rafforzerebbe dal punto di vista della rappresentanza del popolo greco al tavolo della trattativa. Si potrebbe creare una moneta parallela che non è un passo verso il ritorno alla Dracma, ma segnerebbe lo sganciamento parziale dalle misure di austerità più repressive e darebbe la possibilità di pagare gli stipendi e assicurare le prestazioni sociali ancora in vigore. Non credo però che questo esito sia in alcun modo scontato. La Grecia è un paese allo stremo, si trova nella classica situazione in cui il prigioniero confessa il falso al suo peggiore torturatore, pur di sopravvivere.
Dai sondaggi risulta invece che la maggioranza voterà «Sì».
Perché i greci temono di essere isolati ancora di più. Il problema è che nulla si sta muovendo per rendere il loro isolamento meno pesante. Oggi la Grecia è sola, non ha avuto il sostegno concreto da parte dei paesi membri, per non parlare delle loro classi sociali anch’esse danneggiate dalle politiche di austerità. Questa battaglia eroica la sta conducendo con le sue sole forze. Ho sempre sostenuto che per paesi come la Grecia fosse importante restare nell’Eurozona. Essere dentro e contro l’Europa, questa mi sembrava la formula politica più corretta da usare. Ma questa posizione oggi può però rivelarsi disperatamente debole.
E se Tsipras sarà sconfitto?
Ci potrebbe essere un rimpasto di governo in vista delle elezioni. È lo scenario preferito dalla Troika. Il commissario europeo Moscovici aveva iniziato a lavorare in questo senso il giorno prima dell’indizione del referendum, quando ha riunito l’opposizione nella sala attigua a quella dove si svolgeva l’incontro tra Tsipras e le «istituzioni». Una vera e propria provocazione finalizzata a preparare il rimpasto. Bisogna vedere cosa accadrà dentro Syriza. A quel punto la sinistra sarebbe esclusa e ci si sposterebbe verso una compagine governativa di centro. Ma anche in questo caso la situazione potrebbe non migliorare affatto. E, alla fine, la Grecia potrebbe decidere di uscire dall’euro. Per forza maggiore e per disperazione.
L’aggressione della Troika alla democrazia greca è un avvertimento anche a Podemos in Spagna?
Indubbiamente è una misura preventiva. Con il referendum Tsipras ha fatto la mossa del cavallo alla quale la Troika ha risposto con un’altra. La Troika è decisamente spaventata dalla possibilità che i movimenti anti-liberisti abbiano presa anche in paesi centrali come la Germania, a sinistra come a destra. Per questo i suoi strateghi stanno picchiando contro la Grecia in maniera così rozza. In loro non vedo nessuna intelligenza, se non la volontà di distruggere Syriza, la sua legittimità e credibilità. Stanno agendo da golpisti.
A sinistra molti fanno il paragone con il colpo di stato contro Allende in Cile. Secondo lei è un paragone appropriato?
Può sembrare forzato, ma i termini della questione sono questi. Nel 1973 i golpisti usarono l’esercito e la Cia. Oggi in Grecia indossano il doppio petto. Allora, in Sudamerica, non si poteva accettare un governo democraticamente eletto, e di sinistra. Oggi non lo si può accettare in Europa. Questa situazione è il prodotto di un fatto: la sinistra non riesce a spingere in avanti lo scontro su scala europea. L’unica cosa che mi conforta è che saremo costretti a farlo presto.
Spingendo la Grecia verso il default, la Troika ha preso atto del fallimento dell’Unione Europea e la sta frammentando modificandola profondamente?
Lo penso da tempo. Questa Europa è costruita sull’Euro, che è tutto tranne che una moneta in grado di contribuire alla costruzione di un’Europa federale. Sin dall’inizio l’Euro si è anzi rivelato un veicolo di frammentazione di una costruzione che ha già dato abbondanti segnali di implosione interna e di tendenze verso la balcanizzazione. Da tutti i punti di vista: tassi di interesse, inflazione, debito e deficit. Quella che è fallita è un’Europa finanziaria che persegue interessi che non hanno nulla a che fare con l’armonizzazione dei percorsi di crescita dei paesi membri.
Qual è il ruolo della Germania?
È da tempo che i suoi strateghi ordoliberisti hanno abbandonato l’idea di una reale unificazione dell’Europa. L’hanno data in pasto ai mercati finanziari pensando di spostare l’asse strategico economico tedesco verso Est. Il loro gioco ha però trovato ostacoli in Ucraina e per le sanzioni alla Russia. Per questo sono stati costretti a ripiegare sull’Europa. Ora pretendono di imporre un surplus di egemonia tedesca sul continente. Sembra incredibile, ma in questo momento la piccola Grecia conta perché rappresenta un fattore di rischio per un simile progetto di unificazione sotto il pugno di ferro tedesco.
Tre anni fa bastava che Draghi dicesse «whatever it takes» per salvare l’Eurozona. Oggi sembra impotente. Come giudica il suo ruolo?
Tra il 2011 e il luglio del 2012 è stato molto abile. Il suo «atto linguistico» ha tenuto insieme una situazione che aveva toccato la soglia della rottura dell’eurozona. Draghi è «l’ameriKano» in Europa e si scontra con i fanatici dell’Ordoliberismo tedesco, i Weidmann, Schauble, la Bundesbank. Oggi non sa da che parte girarsi. Ha fatto mosse schifose: minacciare di tagliare la liquidità dell’Ela alla Grecia, ha creato panico ed è responsabile della corsa ai bancomat. È stato imperdonabile escluderla dal «Quantitative Easing» in una situazione in cui versa 60 miliardi al mese per evitare l’ampliamento degli spread. Comunque, il suo QE va bene fino a un certo punto perché non mostra poteri terapeutici. In Giappone, negli Usa o in Inghilterra ha aumentato in maniera spettacolare le diseguaglianze. Le imprese usano la liquidità per riacquistare azioni, non certo per fare investimenti. I grandi investitori prosperano sui mercati finanziari. La Bce non è in una situazione tale da contribuire all’uscita da questa crisi.
L’alternativa alla strategia della Troika è la sovranità nazionale e il ritorno alle monete nazionali, come si sostiene anche a sinistra?
A questa storia della sovranità monetaria non ho mai creduto. La sovranità monetaria non c’è mai stata, nemmeno prima dell’Euro, ai tempi dello Sme. Ma poi, che significa oggi una democrazia nazionale? Non basta lo spettacolo che stanno dando i parlamenti dal punto di vista delle garanzie e dei diritti democratici?
La stessa cosa si può dire delle istituzione europee, non crede?
Certo, perché sono la replica farsesca di quelle nazionali. Anzi, sono ancora più vuote. Volenti o nolenti, continueremo a muoverci su un piano sovranazionale continentale. È un fatto irreversibile. È solo su questo piano che oggi si può affermare una democrazia reale, e non formale.
Che cosa intende per «democrazia reale»?
Una democrazia è reale quando si appropria delle ricchezze e le redistribuisce, garantisce una reddito di cittadinanza e aumenta i salari. Elimina le mediazioni degli investitori finanziari ed eroga direttamente risorse, servizi e infrastrutture per i cittadini europei. Questo può avvenire a partire dalla stessa Germania, e non solo nei paesi periferici. Bisogna rilanciare un’idea di Europa politica dove la politica sia fortemente incarnata in queste rivendicazioni per far fronte ai bisogni di popolazioni stremate dalla crisi. Lo scontro è a livello continentale. Questo è il grande insegnamento della Grecia: la sua lotta è la lotta per l’Europa.