Ah, ma dell’unità non ne vogliamo proprio tener conto? è il toccante appello. Vogliamo proprio lasciare il campo alla destra o ai 5 Stelle, vogliamo lasciare libero corso al “populismo”? Così opinionisti grandi e piccoli si cimentano nel rilevare l’incomprimibile desiderio di morte della sinistra, con il suo continuo scindersi e disperdersi , reclamando una qualche resipiscenza. Bando al rancore nei confronti del giovanotto di Rignano che sì ne ha combinate ma, vivaddio, è la credibilità d’Italia in discussione, la sua statura in Europa, l’apprezzamento degli investitori. C’è perfino lo psicanalista che mette in luce quanto danno possa l’odio e come questo sentimento, per dir così, alimenti una perenne febbre nella sinistra che trascorre di conseguenza da una scissione all’altra. Che vi siano motivi forse più seri, sfugge totalmente a quanti in questi anni hanno dimenticato o sempre nascosto che il famosissimo 40% renziano corrispondeva a circa un milione di voti in meno rispetto a quelli presi alcuni anni prima dal PD veltroniano e da allora i votanti sono sempre diminuiti. La crisi della politica, della stessa democrazia, il potere dell’economia e della finanza nel decidere sulla vita delle persone e sulla messa a profitto dell’intero ecosistema terrestre è tutt’al più materia di convegni scientifici o di chiacchiere televisive, non impegno politico a conoscerne le cause, le interdipendenze, a informarne correttamente, a tentarne decisioni di cambiamento. Una delle cause per cui In Italia e in Europa l’insicurezza sociale dilaga e cresce il “sovranismo”, per usare la definizione moderna del nazionalismo più meschino.
Ma tant’è naturalmente, stringiamoci a coorte è l’imperativo categorico non senza riflessi imbarazzanti in persone che forse non sono neppure propriamente di sinistra ma una specie di neoliberisti di sinistra, secondo l’accezione di Nancy Frazer. Così i Radicali che pur contrari alla barbarie delle politiche, si fa per dire, sull’immigrazione del ministro Minniti sembrano poi disposti a convergere con lui in una sacra alleanza elettorale, così i Verdi nonostante lo Sblocca Italia, le trivellazioni, il Tap a Melendugno, una strategia energetica deboluccia, un inquinamento pesantissimo. E c’è anche chi non teme il ridicolo presentandosi pittorescamente con l’alternativa de “La mossa del cavallo”.
Dall’altra parte, nella sinistra che rivendica di esserlo, l’originalità sembra meno scontata ma pur sempre piuttosto preoccupante. C’è l’ineffabile Pisapia che tra incomprensibili assenze e troppo comprensibili abbracci insistentemente geme per l’unità con il PD, con l’unico argomento di preferire ai gufi rossi i colori più riposanti della bandiera. Poi, per il resto, se non sui fatti si può sempre confidare sugli intenti, tanto più se a garanzia ci sarà uno che gira con la tenda. Non se n’abbia a male per questa irriverenza il prof. Prodi ma converrà, almeno, sulla scarsa affidabilità delle conversioni renziane. Quanto all’altro padre dell’Ulivo, il nobile maggioritario Veltroni, è abbastanza complicato comprendere anche solo il senso dei suoi appelli al gotha partitico.
Resta la sinistra verace partita con l’obiettivo di costruire una unica lista elettorale, ma approdata a due maggiori. Una raggrupperà Mdp- SI- Possibile, un’altra si presenterà con Rifondazione, ovvero tra coloro che vantano alcuni parlamentari e, di contro, tra coloro che attualmente non ne hanno. Di altre liste, verosimilmente minori, non c’è una lente di ingrandimento che ne riveli le tracce pur in teoria ipotizzandone l’esistenza. Non si vuole offendere o deridere compagni e compagne cui si deve rispetto e affetto ma sottolineare la desolazione e l’amarezza per questo esito. Nonostante l’Assemblea del Brancaccio avesse acceso tante speranze e dato luogo a molti incontri programmatici e di riconoscimento reciproco, alla fine Falcone e Montanari hanno dovuto tristemente constatare che erano ormai divenute prevalenti quelle stesse logiche che hanno ridotto la sinistra all’irrilevanza. Può darsi che sia naturale aggrapparsi alle organizzazioni esistenti, e certo Falcone e Montanari non ne potevano prescindere. Meno naturale è che non si sia voluto dare vita alla proposta del Brancaccio di seguire un itinerario ben preciso, costituito dalla compresenza inscindibile di un momento tattico, per usare la vecchia fraseologia, rivolto al passaggio elettorale, e di una visione strategica di lungo periodo di ricostruzione di una cultura politica di sinistra. Falcone e Montanari hanno ripetuto spesso che a ridosso del voto il tempo breve non gioca a favore delle trasformazioni necessarie, non permette quel cambiamento di usurati e irrigiditi schemi di pensiero e di comportamento che immobilizzano nella marginalità e, di fatto, nella subalternità. La sfida, era quella di far vivere una lista unitaria cui accompagnare un impegno di più lungo periodo di ricostruzione di un soggetto politico in modo da evitare l’impressione di essere di nuovo in presenza di una pura manovra elettorale di sopravvivenza e sconfiggere la sensazione di strumentalità asfittica delle precedenti esperienze. Ma i partiti non l’hanno raccolta ed è improbabile che la raccolgano ora, fuori tempo massimo, nonostante le sollecitazioni provenienti da più parti. Ormai sembra irreversibile un processo che non potrà neppure essere temperato da qualche episodico incontro o da qualche dichiarazione di essere i più coerenti interpreti dello spirito del Brancaccio.
Se può essere considerato insopportabile riaffidarsi a consumati politici autori di politiche sbagliate e dannose, non meno assurdo risulta il grido di battaglia da altri politici rivolto ai pochi loro esausti seguaci. Né nell’un caso, né nell’altro si è preso in considerazione quantomeno che l’oggettivo logoramento nell’opinione pubblica di figure politiche dilungo corso o di organizzazioni troppo deboli, consigliavano un passo di lato pur mettendosi a disposizione.
E’ comunque singolare che la puntuta attenzione in gran parte sia stata rivolta a questi aspetti e alle procedure di delega e non invece, o non anche, almeno in egual misura all’elaborazione programmatica, ovvero alla prospettiva decisiva di un programma- progetto di società da realizzarsi con il più ampio coinvolgimento possibile delle persone, con forme di autogoverno, con un disegno di attuazione della Costituzione che mettesse veramente al centro il lavoro, la vita quotidiana delle persone, l’universalità dei diritti fondamentali. Non si trattava, evidentemente, di elaborare un programma di governo, essendo del tutto fuori portata questa possibilità, ma più seriamente di innestare un dibattito pubblico di lunga lena da angolazioni differenti da quelle correnti; in discontinuità appunto. Non bastano a tal proposito i pur importantissimi “ titoli” per lo più negativi in cui si è riassunto il lavoro programmatico: no al Jobs act, alla Buona scuola e così via. E’ chiaro che non solo simbolicamente quei no hanno un’importanza cruciale, se vogliamo propedeutica, incrinando il campo dei miti neo liberisti, alla riaffermazione della dignità del lavoro, dell’importanza di un cittadino educato al ragionamento, ecc. Ciò ribadito, è abbastanza banale ricordare che la precarietà, lo stato miserando della ricerca, anche quella di base asservita agli interessi economici, o l’attacco alla sanità pubblica e alla scuola, o la torsione dei beni culturali alla valorizzazione commerciale e l’abbandono di quelli non profittevoli, o lo stato del territorio, o il dramma dell’immigrazione c’erano ben prima di queste leggi esecrande e affondano le proprie radici nell’egemonia culturale dell’impresa. Scavare in questi problemi impervi oltre i titoli per organizzare nel merito una crescita della consapevolezza collettiva e la ripresa di un conflitto sociale che duri nel tempo è qualcosa di più della raccolta di idee ed esperienze. Peraltro ampiamente disponibili. E’ qualcosa che trova nella battaglia culturale e politica di un movimento reale unificante l’unica possibilità di scalfire quantomeno quell’egemonia. E’ ritornato in auge in questi anni, e fa al caso nostro, il concetto gramsciano di interregno, cioè quella situazione nella quale il vecchio muore e il nuovo non può nascere; precisamente la situazione nella quale le classi al potere non dirigono più ma restano dominanti , con le conseguenze “morbose più svariate” che vediamo presenti nella nostra società e in quella europea.
Un esempio riassuntivo della debolezza politica non superata nel dibattito successivo al Brancaccio è l’irresolutezza sull’Europa la cui cosiddetta Costituzione sancisce formalmente l’egemonia liberista: la sinistra oscilla tra il non curarsene, favoleggiare di poterla riformare o proporre l’uscita dall’euro. Di contro a un capitalismo che ha saputo trasformarsi e divenire realmente globale e subordinare a sé la politica, la sinistra balbetta o, peggio, concentra buona parte della sua attenzione sul ritrarsi indignata di fronte a Pisapia o sul cercare spasmodicamente un leader. O girovaga tra le sue rassicuranti strutture e certezze. Veramente si crede con questa ripetitiva immobilità, di suscitare un qualche interesse, un qualche ascolto?
Resta il buon seme piantato nel giugno scorso che forse, trascorso l’inverno del voto, potrà fiorire.