Non che ci si potesse aspettare molto dal confronto in Consiglio comunale, tuttavia è un elemento costitutivo delle democrazie quello di assumere le decisioni nel dibattito pubblico, cui è amaro dover rinunciare. Tanto più se il mancato Consiglio viene da argomenti formidabili come “ a che serve, la conta è già chiara” o dalla difficoltà di dover disapprovare comportamenti propri e del sindaco fino ad allora sostenuti, e di doversi appoggiare a parte dell’opposizione. Come dimenticare che solo poco tempo fa erano stati chiamati in servizio nella Giunta Marino due parlamentari di cui uno eccellente corresponsabile politico dell’abnorme deficit comunale, essendo stato assessore al bilancio nella Giunta Veltroni, e l’altro di altissima competenza certificata dal sostegno a prescindere di quell'opera inutile, ma mangia molti soldi, che è il Tav della Valle di Susa?
Consiglieri che riducono la loro funzione al contarsi, che in definitiva pensano la democrazia come una questione solo di numeri, certificano l’assenza di una qualsiasi capacità di rappresentanza. Tanti possono essere i significati di termini polisenso come democrazia o rappresentanza e dunque non si solleva una questione di legittimità, quanto una questione propriamente politica. Chi governa un sistema assai complesso - come nel caso di Roma e della sua Area metropolitana, sede per di più di uno stato estero/interno come il Vaticano – dove più articolata è la rete di interdipendenze che condizionano la vita quotidiana dei suoi abitanti, può farlo con qualche efficacia se ha capacità di ascolto delle differenti voci della città e di interlocuzione con esse, superando la barriera che rende senza parole una buona parte degli abitanti. Ponendo al centro del proprio impegno la lotta per contrastare ogni forma di esclusione, cioè quegli impedimenti che secondo la Costituzione debbono essere rimossi per la dignità della vita di tutti, nessuno escluso. Tanto più oggi, quando i partiti, e in certa misura i sindacati, soffrono a loro volta di una crisi di rappresentanza o perché si sono per lo più trasformati in aggregazioni clientelari finalizzate a raccogliere voti, o perché le mutazioni nelle classi sociali, nei modi di lavorare e vivere sollecitano nuove impostazioni ardue da scoprire e percorrere.
E’ evidente che i poteri e la capacità d’azione dei Comuni, e in generale delle assemblee elettive, sono assai limitati per più motivi e per la tendenza che sta sempre più consolidandosi all'eliminazione del fastidio e dell’impedimento che il dibattito pubblico può provocare rallentando la marcia di questo o quel pifferaio. Volere disegni progettuali fondati e affidabili, condurre verifiche, evitare promesse non argomentate, chiedere trasparenza nei bilanci viene zittito e bollato come atteggiamento conservatore, corporativo o egoistico, se non populistico. Poi si scopre che tutto ciò è organico a scelte compiute dalle classi dominanti, da poteri non solo nazionali che si tutelano con il ricorso sempre più frequente all'esercizio di procedure straordinarie, cioè in deroga a quei percorsi che potrebbero meglio garantite le comunità da tanti sbandierati richiami a interessi generali o progetti strategici. Basta la parola, sembrano dire. No! Non basta.
I Consiglieri che hanno scelto il notaio per decisione del loro Partito, da essi condivisa, hanno di fatto scelto di non dar conto pubblicamente alla città neppure di ciò che pensano. Ovvero contribuiscono non solo a quell'oscurità che sempre avvolge le situazioni che si cercano di ricomporre al riparo dall'opinione pubblica, nelle stanze delle segreterie, ma anche danno pratica dimostrazione che a quelle segrete stanze tengono più che ai loro.