Il 40,8% è solo un'eccezione, Renzi non arriverà al 2018 In evidenza

Mercoledì, 03 Giugno 2015 09:19

di Curzio Maltese pubblicato su huffingtonpost.it il 02/06/2015

Resisterà Matteo Renzi fino al 2018? Ognuno ha letto il voto regionale come ha voluto, ma su un punto tutti i commenti concordano: nelle urne è sparito il Partito della Nazione. In meno di un anno è fallito il principale progetto politico del renzismo.

Ed è fallito nelle migliori condizioni per cui si realizzasse, in assenza di una qualsiasi alternativa.

Contro un centrodestra confuso e suonato come il Berlusconi che a Segrate chiede il voto per il sindaco avversario, un centrodestra che non può più contare sulla bussola di un berlusconismo morto e sepolto e non potrà mai essere guidato dal lepenismo in salsa padana di Salvini.

È fallito contro un Movimento 5 Stelle che, dietro l'alibi della purezza, ha dimostrato ancora una volta di non voler governare mai e da nessuna parte, dopo l'incubo e lo choc della Parma di Pizzarotti. Ed è quindi destinato, prima o dopo, a esaurirsi, come sarebbero spariti Syriza e Podemos se invece di governare le grandi città greche e spagnole grazie ad alleanze improntate alla real politik avessero sposato la linea purista e settaria del "noi contro tutt".

Ho sempre pensato che Renzi, preso il Pd al 25 per cento, l'avrebbe portato al 35 (in realtà il 41), ma l'avrebbe lasciato al 15, o forse meno. Le qualità personali del leader, sulle quali in Italia è fiorita in pochi mesi un'ampia e spesso ridicola letteratura, c'entrano poco. La crisi dei partiti socialisti è un processo che riguarda tutta Europa da molti anni. Il clamoroso successo del Pd di Renzi alle europee l'anno scorso, quel 41 per cento figlio di molte circostanze favorevoli, era soltanto l'eccezione.

Nel resto d'Europa le social democrazie sono tutte in rotta, alcune si sono quasi estinte, laddove l'austerità ha colpito più duro, come il Pasok in Grecia; altrove hanno dimezzato i consensi, come in Spagna; oppure sono diventati stabilmente alleati della destra al governo, come in Germania. In Gran Bretagna i laburisti non riescono a rimontare la china e in Francia i socialisti governano a dispetto di un'opinione pubblica che non vede l'ora di mandarli a casa.

La tanto celebrata Terza Via di Blair, Schroeder, Zapatero e altri, ovvero la conversione delle social democrazie ai dogmi liberisti, ha lasciato ai successori queste macerie. L'austerità voluta dalla Merkel si è dimostrata un pessimo piano economico, perché non ha ottenuto nessuno dei risultati dichiarati, dal rilancio dell'economia e dell'occupazione al contenimento del debito pubblico. Ma in compenso s'è rivelato un geniale strumento politico, perché attaccando la grandiosa costruzione del welfare ha tolto dai piedi dell'avversario politico, la social democrazia, la base sociale.

Quello che possiamo chiamare il suicidio socialista in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Grecia si è realizzato nell'arco di un ventennio. In Italia è cominciato in ritardo, come tutto, ma rischia di compiersi in pochissimo tempo e non solo per colpa di Renzi. Tutto è infatti cominciato con le scelte suicide di Pierluigi Bersani. Se nel 2011, al crollo del ventennio berlusconiano, il Pd di Bersani avesse trovato il coraggio di andare al voto con un deciso programma anti austerità, avrebbe di sicuro vinto e governato. Al contrario ha preferito caricarsi sulle spalle due anni delle politiche sbagliate e recessive di Mario Monti, tele comandate dalla trojka, e sotto quel peso è stato alla fine schiacciato. L'elettorato del Pd, che da sempre è assai più a sinistra dei propri dirigenti, ha punito l'errore di Bersani con il plebiscito a Renzi, votando il nuovo senza neppure conoscerlo. E per la stessa ragione, l'amor di novità, milioni d'italiani hanno votato Renzi (lui, non il Pd) alle europee. Senza conoscerne davvero i programmi.

Dopo il trionfo delle europee il nuovo partito, il PdR (copyright Ilvo Diiamanti) ha finalmente rivelato agli elettori la sua essenza, quindi non lo votano più. Il PdR è una strana creatura, un ircocervo della politica, come direbbe Eugenio Scalfari. Un partito sedicente di sinistra che coltiva come bersagli principali il sindacato, lo statuto dei lavoratori e gli stessi lavoratori dotati ancora di qualche garanzia, gli insegnanti, i pensionati, insomma lo storico blocco sociale della sinistra. A questo "vecchiume da rottamare" non contrappone nessun mito, sogno o visione dell'Italia, Soltanto l'urgenza ineluttabile di controriforme liberiste volute dalla signora Merkel e già sperimentate con risultati catastrofici in tutto il Sud Europa, in Grecia, Portogallo e Spagna.

Oltre a questo, il PdR si segnala per l'offerta di una classe dirigente mediocre perfino per i bassi parametri italiani, priva di fascino e di prestigio in Europa. Guardate l'immagine di Renzi e Orfini che giocano alla playstation in attesa della batosta elettorale. E' un'immagine che vorrebbe comunicare forza e serenità, e invece trasmette un'inquietante sensazione di fragilità e dilettantismo. Com'è successo che una grande nazione che avrebbe bisogno d'essere guidata da un genio di politiche industriali per uscire dal proprio declino, si sia invece consegnata a un adolescentone simpatico quanto superficiale che trascorre la gran parte della giornata a giocare con le più sciocche e inutili invenzioni del nostro tempo, da twitter al selfie?
Il PdR, il partito nuovo, ha perso domenica scorsa.

Il Pd della vecchia guardia da rottamare, Emiliano, Rossi, De Luca, che con Renzi, nel bene e nel male, non c'entra nulla, quello ha vinto. Ha perso il renzismo da rotocalco e talk show di Alessandra Moretti, umiliata dal voto veneto, e quello ossessionato dalla polemica a sinistra di Lella Paita, che fra un po' darà a Pastorino anche la colpa dell'alluvione, piuttosto che interrogarsi sul perché abbia perso oltre la metà dei voti di Burlando.

E veniamo alla risposta: Renzi non arriverà al 2018. Sarà fatto fuori prima, dall'alto o dal basso. Dall'alto quando avrà finito il lavoro per cui l'hanno messo lì i poteri nazionali e internazionali garantiti da Napolitano: abbattere i diritti del lavoro, licenziare centinaia di migliaia di statali, tagliare salari e pensioni e stravolgere la costituzione antifascista, ormai incompatibile con le politiche di austerità, come scrisse tempo fa JP Morgan. A quel punto il giovane aspirante principe fiorentino, ormai impopolare, farà la fine di Monti, Letta e di tanti fantocci descritti dal Machiavelli: immolato sulla pubblica piazza. Magari per spianare la strada a un vero e serio progetto conservatore, guidato da Mario Draghi.

Renzi potrebbe essere fatto fuori anche dal basso, nel caso in cui alla sua sinistra si facesse la cosa semplice che hanno fatto Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, ovvero lasciar perdere le velleità da rivoluzionari di salotto, copiare con la carta carbone i programmi della più classica social democrazia e offrire rappresentanza al blocco sociale abbandonato dal vecchio centrosinistra. Ma la sinistra della sinistra, con i suoi ego arroventati, la sua ridicola contrapposizione in sedicesimo fra politica e antipolitica, con una minuscola società civile fieramente contrapposta a dei minuscoli partitini, sembra per ora molto lontana da una simile prospettiva.

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