Una Tangentopoli riveduta e corretta, anche peggio di quella di 22 anni fa, perché mentre all’epoca la politica teneva in ostaggio gli imprenditori, oggi si consegna mani e piedi al malaffare, accetta rispettosa la sua subalternità al potere criminale sottomettendosi senza fare resistenza a un ex terrorista dei Nar, poi vicino alla banda della Magliana, e alla sua cosca affaristico-mafiosa, in cui il numero due è il re delle Coop sociali. Un’intera classe dirigente si inchina insomma ai piedi di Massimo Carminati, uno con cui non dovrebbe nemmeno prendere un caffè, e fa di Salvatore Buzzi il ras indiscusso di appalti milionari per lo smaltimento dei rifiuti, l’accoglienza degli immigrati, campagne elettorali, progetti edilizi.
Si dirà che è una generalizzazione e che tutte le generalizzazioni sono sbagliate. Vero, ma il marciume che sta emergendo con l’inchiesta della procura di Roma non risparmia nessuno, in un intreccio trasversale in cui la differenza tra destra e sinistra sfuma fino quasi a sparire. Ed è troppo facile derubricare tutto a questioni locali, a casi isolati, come se questo potesse bastare ad assolvere i vertici dei partiti. Non è così. Come hanno insegnato anche gli scandali dei rimborsi regionali, dell’Expo, del Mose – giusto per restare a quelli più recenti – la corruzione in Italia è ormai diventata sistema. La politica non cede al malaffare, lo cerca, gli apre le sue porte, ci stringe patti. Poi, quando viene scoperta, trova sempre il capro espiatorio, l’anello debole di turno a cui addossare tutte le colpe. Punirne uno per salvarne cento. Ma l’approccio delle mele marce non funziona, serve un’assunzione generale di responsabilità che vada, finalmente, oltre le inutili frasi di circostanza e le solite ipocrite lacrime di coccodrillo per approdare ai fatti. La corruzione si ferma solo con regole chiare e con leggi severe, altrimenti è tempo perso. E invece la riforma della giustizia promessa a febbraio per giugno è ancora una scatola vuota, con nessun intervento sulla prescrizione e una norma sull’autoriciclaggio non all’altezza, mentre il Parlamento ha approvato una legge sullo scambio di voto politico-mafioso che non servirà a niente, visto che il politico colluso con la mafia se la può cavare comunque a poco prezzo, senza andare praticamente mai in galera.
La verità, checché se ne dica, è che non c’è la volontà di fare sul serio, di spezzare una volta per tutte l’intreccio tra politica e interessi criminali, quella che Falcone chiamava ‘zona grigia’ e che ora è diventata una ‘zona nera’. Sarebbe bastato raccogliere almeno uno dei tanti allarmi lanciati dalla magistratura, almeno quella più impegnata sul fronte antimafia, quegli allarmi in cui si avvertiva in modo forte e chiaro che la nuova mafia ha smesso coppola e lupara e si è reinventata come mafia d’affari, abile a tessere relazioni, scambiare favori, mercanteggiare appalti con voti e tangenti. Una mafia invisibile, di sistema, che dalla Sicilia è risalita al nord e al centro, arrivando al cuore economico e politico del Paese, esportando il malaffare in luoghi insospettabili. E invece quegli allarmi sono stati sistematicamente e volutamente ignorati, mentre il malaffare continuava a divorarsi il Paese. La politica nulla ha fatto, tra chi profondamente colluso, se non addirittura espressione di quel sistema criminale, e chi a quel sistema si è adattato senza troppi problemi, per convenienza, per incapacità o per mancanza di coraggio.
Posso dire di essere stato uno dei pochi, se non l’unico, a ripetere che una politica degna di questo nome deve avere come primo obiettivo quello di eliminare mafia, di spezzare la collusione con il malaffare, ma nessuno ha voluto mettersi attorno a un tavolo e discuterne davvero. Anzi, sono stato fatto oggetto di un ostracismo generale, bipartisan, per isolarmi e impedire che potessi dare, con la mia esperienza di magistrato, un contributo forte nella lotta per la legalità.
Il risultato di tutto questo è un imperdonabile spreco: il post-Tangentopoli poteva essere una grande occasione di rinnovamento, la scintilla per una rivoluzione etica, culturale e legale in grado di mettere l’Italia avanti a tutti, e invece le cose sono addirittura peggiorate, con la vittoria del partito trasversale dell’impunità, dell’illegalità. Emblematica è in questo senso la trattativa che lo Stato ha accettato di fare con la mafia dopo la stagione delle stragi: in quel momento la politica, la classe dirigente del Paese, tra l’intransigenza di Falcone e Borsellino e la vecchia tentazione del compromesso con i poteri criminali, scelse quest’ultima, rinunciando di fatto a mettere in piedi un progetto per debellare davvero il sistema criminale riconducibile a Cosa nostra in tutte le sue sfaccettature. Di lì in avanti la mafia, che poteva essere sconfitta su ogni piano, e non solo su quello militare, è evoluta ad alti e più sofisticati livelli, finendo con l’essere considerata e accettata come una componente inevitabile e ineliminabile, con cui meglio fare patti che la guerra. Mafia Capitale ne è l’ultima conferma.