Fana e Raitano formulano un secondo scenario più realistico, sulla base dei dati del ministero del Lavoro riguardanti la durata dei contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato tra il 2012 e il 2014 e cessati entro il terzo anno. Nello specifico, il 13% dei contratti trasformati cessano mediamente entro il primo anno, il 17,7% entro il secondo, il 10,3% entro il terzo anno. Quindi in base all’evidenza storica il 41% dei contratti trasformati dura meno di 3 anni. Scadenza naturale perché, al 37esimo mese ci sarebbe l’obbligo di assumere il lavoratore, come stabilito da una direttiva europea, sostanzialmente neutralizzata dal «decreto Poletti» sui contratti a termine approvato prima del Jobs Act. Gli studiosi delineano anche un terzo scenario e avanzano l’ipotesi per cui il 20% delle assunzioni a tempo indeterminato duri 18 mesi, mentre il restante 80% raggiunga i 36 mesi. In questo caso l’onere lordo per le casse dello Stato sarebbe pari a 14,6 miliardi.
Una prospettiva che conferma la stima avanzata dai consulenti del lavoro secondo i quali mancano all’appello 3 miliardi. Il governo sarebbe paradossalmente vittima del suo successo: ha generato una richiesta di lavoro a termine finanziato dai contribuenti che non riesce a coprire. È tuttavia probabile che, al termine del triennio, l’impatto degli incentivi sul bilancio pubblico sarà inferiore visto che i contratti sono precari e prevedono una retribuzione al lavoratore inferiore alla media. Inoltre, a partire dal 2016, lo sgravio è diminuito da 8.060 a 3.250 euro per ogni assunzione a tempo indeterminato o trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. La nuova decontribuzione durerà 24 mesi e non 36 mesi. Una decisione necessaria anche per diminuire l’impatto degli incentivi sul bilancio.
Arriviamo ai risultati conosciuti della politica dei bonus sull’occupazione. Deludenti. Nel ricco dossier su «Etica ed Economia» si ripercorre il fallimento del Jobs Act, al netto della propaganda renziana finita anche sugli autobus delle principali città italiane in vista delle elezioni amministrative. Per l’Istat, nel 2015, i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato sono aumentati di 114 mila unità circa rispetto al 2014. Parliamo di meno dell’8% dei contratti finanziati dal governo. Prospettiva confermata dal bollettino di Bankitalia a gennaio: nel prossimo triennio, gli sgravi contributivi genereranno una nuova occupazione pari a circa 0,3 punti percentuali.
Undici miliardi di euro potrebbero portare a questo risultato a dir poco modesto. In questo scenario, il «contratto a tutele crescenti», pilastro del Jobs Act, contribuirà solo per l’1 per cento sull’occupazione complessiva. Tutto il resto lo faranno gli incentivi. Nel 2015, ricordano Fana e Raitano, i contratti che hanno beneficiato degli sgravi – incluse le trasformazioni dei rapporti a termine che sono la maggioranza e riguardano gli over 50 più dei giovani – sono 1.547.935 di cui solo un quarto (379.243) a dicembre 2015, quando le imprese hanno fatto una corsa per accaparrarsi il bonus renziano. Non è ancora chiaro quali saranno gli effetti della «droga» usata dal governo per gonfiare il mercato del lavoro quando gli incentivi si esauriranno. Quello che, al momento si sa, che ogni occupato in più costerà al contribuente tra i 25 mila e i 50 mila euro. Queste persone rischiano di tornare disoccupate nel 2018.
«Gli economisti che progettano sgravi e incentivi hanno una visione “naive” dell’impresa e una concezione dell’economia superata» si legge in una notadel dossier online. Le politiche degli incentivi, quelli a pioggia e quelli condizionati ai nuovi assunti, non funzionano. Renzi sta disperdendo preziose risorse pubbliche per un generico sostegno alla domanda aggregata. «Questa è una politica di stampo vetero-keynesiano». Anche Michele Tiraboschi, alla guida di Adapt, converge sulla stessa valutazione: «Il Jobs Act è il più costoso dei flop» ha scritto ieri sul bollettino del centro studi.