Uno spunto di riflessione viene dalla recente scomparsa di una delle più alte figure di sindaco, Renato Zangheri. La Bologna che egli dirige a partire dal 1970 è la città che ha portato avanti una straordinaria realizzazione del welfare urbano. La stagione degli asili nido parte da lì. I centri anziani testimoniano l’attenzione verso la parte più debole della società. Biblioteche e parchi di quartiere per i giovani. Nella concezione egualitaria che allora caratterizzava la sinistra furono sperimentati trasporti urbani gratuiti nelle ore frequentate da lavoratori e studenti. La città era insomma concepita come un bene comune che doveva essere redistribuito per colmare le differenze sociali. In quegli stessi anni Pierluigi Cervellati mise in scena uno straordinario capitolo dell’urbanistica italiana recuperando parti del centro antico e lasciando le case restaurate ai ceti popolari: un’esperienza che divenne famosa in tutta Europa.
Quella stagione preziosa fu possibile grazie a una equilibrata politica di indebitamento, e cioè di investimenti pubblici in favore di tutti. L’attacco al welfare urbano è avvenuto sotto la bandiera dei tagli lineari di bilancio. Ma come dimostra il verminaio di Mafia capitale e i continui casi di corruzione nel sistema degli appalti, molto più consistenti poste di bilancio sono state lasciate nelle mani di malfattori legati alla politica ridotta ad azione lobbistica. Per le altre poste di bilancio non c’è stata pietà: asili nido, servizi sociali, trasporti, cultura. Un sistema inclusivo è stato desertificato e nello stesso tempo il deficit dei comuni è aumentato enormemente proprio perché sono state salvaguardate le opere inutili, dimostrando che la voragine dei nostri conti pubblici non deriva dalla spesa sociale ma dalla sistematica azione di rapina. Sono oggi 200 le amministrazioni locali fallite e i piccoli comuni sono ormai senza futuro. La scelta dei tagli alla spesa sociale si è dimostrata una fredda scelta ideologica.
Il tema da affrontare è come mai quell’ideologia sia stata fatta propria anche dalla sinistra. Alla fine degli anni ’80 (Zangheri lasciò la città nel 1983) furono accettate tutte le posizioni culturali dei nostri avversari storici per assecondare le privatizzazioni. Oggi si paga pressoché per tutte le erogazioni pubbliche e i pochi amministratori che resistono lo fanno con grandi difficoltà. Sbaglieremmo ad attribuire la responsabilità di questo misfatto solo al partito della sinistra che non c’è più, e cioè al Pds-Ds-Pd. Le sue colpe sono gigantesche ma se ci fermassimo lì non coglieremmo il nostro stesso appannamento. Anche figure prestigiose estranee a quel mondo sono state incapaci di delineare una prospettiva differente.
I bravi sindaci di Milano e di Genova sono rimasti loro malgrado schiacciati da questa gigantesca involuzione culturale. Non possono agire verso un’altra prospettiva e si limitano al più ad edulcorare le politiche neoliberiste trionfanti. E’ questo sentimento di impotenza ad essere avvertito dalla popolazione delle periferie. E’ da questo intreccio di questioni — oltre ovviamente dalla cancellazione dei diritti dei lavoratori — che nasce il cono d’ombra che ci oscura, la disaffezione alla politica, la fuga dal voto. Se non colmiamo questo deficit di cultura politica e non torniamo ad occuparci di città nel suo insieme di bisogni sociali e di marginalità non riusciremo a riscattarci.
E’ una sfida gigantesca, ma non partiamo da zero perché in questi anni una diffusa cultura alternativa si è mantenuta viva grazie a tante azioni locali e alla straordinaria vicenda dei movimenti dell’acqua pubblica. Si tratta a mio giudizio di passare dalla difesa dei beni comuni — penso all’esemplare azione di Napoli sull’acqua — ad una sistematica azione di risarcimento per la parte della società maggiormente colpita dalla crisi. Dobbiamo ripensare i luoghi urbani come una grande opportunità di redistribuzione sociale, che non smantella o vende i servizi pubblici ma li rende più efficienti con l’attiva partecipazione popolare. Le risorse ci sono: basta tagliare appalti e esternalizzazioni che perpetuano il dominio liberista.
Se perdiamo questa occasione determineremmo il nostro ulteriore declino e garantiremmo la riuscita piena dell’ultimo traguardo che l’economia di rapina vuole imporre: la vendita del patrimonio pubblico e la ulteriore privatizzazione dei servizi pubblici. La vicenda greca di queste settimane ci dice di non illuderci: Germania e Troika hanno imposto 50 miliardi di vendita di beni immobiliari e di società pubbliche e l’insigne giurista Paolo Maddalena non si stanca di ripetere che senza patrimonio gli Stati perdono la propria sovranità. E se non ci svegliamo toccherà anche al nostro paese.