Una sera in Abruzzo, gli ho sentito dire un’altra cosa. Quando il giornalista gli chiede “perché non fa più film, maestro?”, Scola risponde: “Perché ho scoperto che Dostoevskij ha scritto tantissimo!”.
Per me è stato un calcio in testa, anzi due. Il primo è quello politico e militante di non lavorare col padrone più padronale degli ultimi trent’anni: il vecchio signore di Arcore, il “culo flaccido” secondo la felice e sintetica definizione di Nicole Minetti. Ma soprattutto l’indicazione netta e incontestabile rispetto a un’arte che deve essere altissima sempre. Cioè è importante la critica ai duci e ai ducetti, ma ancora più importante è puntare gli occhi e il cuore sulle parole vere, quelle che sono state scritte scavando nel ventre degli esseri umani.
Berlusconi è una figura opaca che risorge sempre, ma lo fa sempre peggio. Craxi e Andreotti (tanto per fare un esempio del grigio passato) sono burattini messi in cantina per sempre, pronti per la raccolta indifferenziata. Persino il Duce originale, lo scucchione in bianco e nero con la panza in guerra nella battaglia del grano, è un pupazzo ridicolo che non fa ridere solo i quattro ragazzotti fascisti del terzo millennio.
E Dostoevskij? Lui no. Ci sono parole che galleggiano un palmo sopra la schiuma putrida delle chiacchiere. E Scola, tra una parola e un pernacchio, ti dice che non vale la pena mettersi a combattere per strappare un’ultima pellicola alla propria storia, per aggiungere un pezzetto di racconto a un racconto già abbondantemente raccontato. Meglio sedersi in poltrona e rileggere le parole che sono arrivate vive attraverso il cimitero della letteratura che seppellisce libri e scrittori ogni giorno.
Che impressione sapere che Ettore Scola è morto!
Che impressione vedere che è più vivo di tanti che fanno i salti mortali per mostrare di essere ancora vivi!